Viaggio in Serbia: Studenica, Belgrado, Novi Sad e Fruška Gora: un Paese fra Medioevo e modernità
Doveva essere, inizialmente, un percorso attraverso tre capitali balcaniche (Lubiana, Zagabria e Belgrado): ma poi si è trasformato in un viaggio “solo” in Serbia, grazie anche ai suggerimenti del portale web Turismo in Serbia.it che mi hanno affascinato e hanno suscitato in me la curiosità di conoscere meglio questo Paese.
testo di Antonio De Caro, in viaggio in Serbia dal 24 al 31 maggio 2014
fotografie di Turismo in Serbia.it
BELGRADO
Sono arrivato a Belgrado di notte, e la prima cosa che ho notato è stata la presenza di molte persone per le strade. Il mio albergo si trovava proprio nella zona pedonale del centro, e i locali tutt’intorno brulicavano di giovani che bevevano, ridevano, ascoltavano musica in un’atmosfera rilassata, vivace ma composta e signorile. Il taxi mi ha lasciato a circa 100 metri dall’hotel, e ho percorso a piedi quel tratto pregustando l’incontro con una capitale tranquilla e ospitale.
Non ho partecipato a tour organizzati: ero io da solo con il mio libro, che mi ha guidato alla scoperta dei diversi quartieri. Noti subito che a Belgrado aleggiano le anime delle diverse epoche della sua storia: lineamenti slavi, turchi, asburgici, affiorano dai palazzi, spesso in abbandono, come anche dalla bellezza fiera e prorompente degli uomini e delle donne.
Difficilmente ho visto persone in ozio: giovani e meno giovani erano quasi sempre al lavoro, anche se li ho trovati disponibili all’accoglienza e all’aiuto verso i visitatori. Non tutti parlano inglese, ma non mi è successo mai di chiedere informazioni senza ottenerle in qualche modo. I Serbi possono sembrare severi, ma improvvisamente vedi fiorire il sorriso nei loro occhi e sul viso, e ti senti a casa. È la stessa atmosfera che avrei respirato poi a Skadarlija (cirillico: Скадарлија), il quartiere bohémien della capitale: lì, forse, gli aspetti turistici sono un po’ più accentuati, ma come possono esserlo a Montmartre o Taormina; buon cibo, musica, artigianato, in una via senza traffico che, soprattutto la sera, fa gustare il piacere di un’esistenza dal respiro calmo e dal ritmo umano.
Solidi e cordiali: come la capitale, piena di colline a volte faticose da percorrere e scalare, ma che poi ti regalano panorami stupendi sui fiumi.
Nel parco Kalemegdan (cirillico: Калемегдан), presso la Statua del Vincitore (Pobednik, cirillico: Победник), nello stesso tempo respiri la brezza che viene dalla Sava e dal Danubio e avverti nella mente il vento della storia che su quei fiumi è passata.
La stessa emozione che si prova andando al sobborgo di Zemun (cirillico: Земун), così pacifico nonostante si trovi a stretto contatto con la vita pulsante della città. E comprendi come questa terra abbia vissuto e sofferto le ferite di chi si è trovato sempre fra Occidente e Oriente, tentando – a volte disperatamente – di conservare un’identità nazionale. Ancora una volta, la solennità calma del paesaggio è commentata dalle persone intorno, quiete e serene: giovani coppie o famiglie con figli, gruppi di amici, classi di bambini.
Nel parco Kalemegdan ho fatto il primo incontro con le chiese ortodosse: entri e vieni subito avvolto da una fresca penombra satura di incenso, in cui scorgi solo le luci delle candele che illuminano discretamente le icone. La fede ortodossa è così, ti abbraccia, colpisce i sensi (il buio e la luce, il fresco e il profumo, il silenzio e i cori) per trasportarti in una dimensione interiore.
La mia visita è poi ripresa uscendo dal parco attraverso un sentiero circondato da alberi e fiori, in fondo al quale svetta la cattedrale di San Michele Arcangelo (Saborna Crkva, cirillico: Саборна Црква). Tornando verso l’albergo e Terazije (cirillico: Теразије), ho percorso a piedi la via Knez Mihailova (cirillico: Кнез Михаилова Улица), da Kalemegdan a Piazza della Repubblica (Trg Republike, cirillico: Трг Републике). Era un sabato, e dieci giorni prima la Serbia era stata colpita da una violenta ondata di maltempo, che ha provocato vittime e ingenti danni. Per questo motivo, le vie pedonali erano piene di gruppi di giovani che cantavano e suonavano, dal rock alla musica etnica a quella lirica, al canto polifonico: tutti per raccogliere fondi e soccorrere le persone colpite dalla calamità.
Spesso i media parlano dei Serbi come di un popolo fiero e rude, virile ma poco incline alle emozioni. Non è esattamente quello che ho visto. C’erano genitori tenerissimi con i figli, gruppi di amici che visitavano le chiese con rispetto e maturità, anziani che scherzavano con i giovani. Un pomeriggio, di fronte al Museo Nazionale (Narodni Muzej, cirillico: Народни Mузеј) di Piazza della Repubblica (Trg Republike, cirillico: Трг Републике), dove tutti si danno appuntamento, ho visto un giovane di circa vent’anni, con un mazzo di fiori in mano.
Forse aspettava una ragazza, forse era uno dei primi incontri, e leggevi sul suo volto inquietudine e stupore; l’imbarazzo di trovarsi da solo in mezzo alla gente, aspettando solo lei, quasi vergognandosi di una posa così inconsueta; e, nello stesso tempo, l’ansia di vederla, di cogliere in lei la gioia riconoscente per quei fiori, la promessa di un amore che nasce; e la trepidazione di chi sa che momenti come questo, improvvisamente, fanno di un ragazzo un uomo.
Ovviamente, ho imparato un po’ di serbo, e ho capito che per sopravvivere devi conoscere almeno tre parole: пекара (pekara, panificio), кафана (kafana, trattoria) e посластичарница (poslastičarnica, pasticceria). Vedere queste insegne era una consolazione, soprattutto nei momenti di maggiore stanchezza.
L’alfabeto cirillico, in effetti, può risultare un ostacolo per i visitatori, anche se quasi sempre le scritte sono traslitterate in caratteri latini. Non ci vuole molto, tuttavia, a orientarsi: e come per molti altri aspetti, esso appartiene alle “tensioni” della Serbia, protesa verso l’Europa e la modernità, ma senza sganciarsi mai del tutto dalla storia e dalla sua identità antica.
Successivamente, mi sono spinto attraverso le vie di Vračar (cirillico: Врачар) e Neimar (cirillico: Неимар), fino al colossale Tempio di San Sava (Hram Svetog Save, cirillico: Храм Светог Саве): circondato dal verde, ampio e accogliente, questo edificio è un simbolo della Serbia che si (ri)costruisce, senza dimenticare le sue tradizioni. Anche la chiesa di San Marco (Crkva Svetog Marka, cirillico: Црква Светог Марка), a Tašmajdan (cirillico: Ташмајдан), è collocata in un bellissimo parco, che invita all’incontro e al relax. La domenica, capita che l’intenso profumo delle rose si mescoli con quello dell’incenso che esce dalla chiesa durante la celebrazione.
C’è una Belgrado mediterranea e contadina, che puoi assaggiare (nel vero senso della parola) al mercato ortofrutticolo di Zeleni Venac (cirillico: Зелени Венац), dove incontri un’umanità semplice, genuina e senza coloranti, come la frutta e la verdura che vende. E c’è una Belgrado decadente, malinconica e dimenticata: quella di Kosančićev Venac (cirillico: Косанчићев Венац), il quartiere in cui, dicono le guide, hanno abitato sempre solo Serbi, anche durante le dominazioni straniere; o quella di Dorćol (cirillico: Дорћол), che andrebbe visitato una volta durante il giorno e una volta alla sera. Questi due quartieri hanno ben poco di turistico: vie strette, ciottoli non sempre agevoli, edifici in abbandono, ma carichi di storia. Vi scorgi antiche decorazioni, mascheroni in pietra, archi e linee ottocenteschi. È la Belgrado vecchia, gelosa dei suoi segreti, dei sussurri delle persone che nel silenzio hanno attraversato le grandi stagioni della storia amandosi e odiandosi “in serbo”. L’alito delle epoche promana dai vecchi portoni, dai muri anneriti, dall’eleganza borghese ancora visibile da qualche decorazione in Jugendstil, poi deturpata da una delle tante guerre. Mentre cammini per queste vie, misteriosamente, ti trovi immerso in un silenzio pieno di rispetto; e hai la tentazione di pensare che quei palazzi in fondo sono sempre stati così, una figura dell’anima, un emblema della malinconia per il tempo che passa; e che forse non saranno mai restaurati, perché, se lo fossero, perderebbero la loro capacità di raccontare quanto i ricordi possano essere, nello stesso tempo, dolci e crudeli.
MONASTERI DI ŽIČA E STUDENICA
Il mio viaggio in Serbia mi ha poi portato a visitare alcuni grandi monasteri ortodossi: da Belgrado, mi sono spostato verso Kraljevо (cirillico: Кралјево), e da lì a Studenica (cirillico: Студемица). Il tragitto è stato davvero scomodo e incerto, perché ho scelto i mezzi pubblici, molto vecchi e sporchi, e non ero ben sicuro che le informazioni che mi avevano dato fossero corrette. Ci siamo inoltrati verso sud, tra alte colline e boschi, in un paesaggio sempre meno segnato dalla presenza dell’uomo. Il bus era pieno di contadini che parlavano solo serbo, e io consultavo nervosamente la mia cartina per rendermi conto di dove fossimo arrivati. Qualcuno però mi ha notato e, senza che io abbia chiesto niente, mi ha aiutato a scendere alla città giusta per prendere la coincidenza per il monastero. Dopo un viaggio lungo, faticoso e scomodo, mi sono ritrovato in mezzo a una regione rurale, verde e silenziosa, dove sorge da secoli il monastero di Studenica. Grazie alla foresteria, attrezzata, comoda, pulita e molto ospitale, ho trascorso lì due giorni, con cibo semplice e soprattutto con l’opportunità di partecipare alle celebrazioni dei monaci, alla sera e all’alba. Sono andato in Serbia, fra l’altro, proprio per questo.
La chiesa del monastero, dedicata a Maria Bogorodica (“Madre di Dio”), odora di pietra antica ed è formata (come gli antichi templi greci) da tre ambienti uno contiguo all’altro; dall’esterno all’interno, le porte e le soglie segnano il passaggio verso una dimensione altra, fuori dal tempo, il cui culmine sono gli splendidi affreschi della volta e poi l’iconostasi. Porta dopo porta, la luce naturale dell’esterno si attenua, mentre cresce una penombra chiazzata da isole di luce e colore: le candele, le icone. La semplicità della struttura assume così un significato mistico e trinitario. La preghiera dei monaci è lenta, contraddistinta da frequenti ripetizioni (gli inchini, i segni di croce, la formula “Signore pietà”). Il loro aspetto è severo, ieratico; quando pregano, raramente si scambiano sguardi o gesti, così da esprimere davvero la solitudine dell’itinerario dell’uomo verso Dio, la cui ultima soglia è rappresentata dal velo dell’iconostasi, che viene aperto solo durante le celebrazioni solenni. Alla fine, si ha la sensazione di avere attraversato il tempo e di avere raggiunto una dimensione di pace e di ordine, di dominio di se stessi.
A colazione, ho fatto amicizia con una coppia di giovani americani, che gentilmente mi hanno dato un passaggio in macchina, sia per visitare il monastero di Žiča (cirillico: Жича), vicino Kraljevo, sia per ritornare a Belgrado in modo più agevole rispetto all’andata.
NOVI SAD E I MONASTERI DELLA FRUŠKA GORA
Da Belgrado, poi, uno dei frequenti pullman mi ha portato all’elegante Novi Sad (cirillico: Нови Сад). È davvero stupenda: ordinata, efficiente, signorile. Si avverte l’influenza asburgica, ma colpisce, nel centro storico, la varietà degli stili architettonici (gotico, rinascimentale, barocco) e la bella presenza di famiglie e giovani nei numerosi caffè all’aperto. Novi Sad è raffinata e moderna, slanciata verso l’Europa.
Dopo averne gustato l’ottima offerta alimentare – a prezzi assai accessibili -, la tappa successiva era quella di organizzare un bel giro per il parco naturale della Fruška Gora (cirillico: Фрушка Гора), famosa per la produzione di vino e i 15 monasteri ortodossi disseminati fra colline e boschi. I mezzi pubblici portano solo in una delle cittadine limitrofe, e i tour organizzati sono davvero cari. Come fare? L’hotel mi ha aiutato a noleggiare un’auto, che l’indomani mattina era davanti all’ingresso, e da solo, in un giorno di maggio che era anche il mio compleanno, ho guidato per il parco, visitando otto splendidi monasteri. Ancora una volta, la natura, la storia, il silenzio, la prospettiva mistica delle porte e delle immagini, del buio e della luce; e, in aggiunta, il sorriso amichevole di monache e persone liete di ricevere chi manifesta rispetto e ammirazione per i loro tesori di arte e di fede.
La sera, ho alloggiato presso una delle tante rest house della zona – i veri bed and breakfast delle origini -, cioè le fattorie in cui ti mettono a disposizione una stanza, cucinano per te come per la loro famiglia e puoi anche acquistare i loro prodotti tipici coltivati e preparati dalla stessa famiglia. Stranamente, i due uffici del turismo della città di Novi Sad non davano informazioni su come visitare la Fruška Gora, per cui sono dovuto andare nel vicino paese di Sremski Karlovci (cirillico: Сремски Карловци). Sembrava una noiosa perdita di tempo, e invece mi sono ritrovato in un piccolo gioiello, un centro storico pieno di monumenti, con zona pedonale, bambini, caffè all’aperto. All’eleganza del posto si è associata la disponibilità delle persone, che mi hanno dato tutte le informazioni per il giro della zona (monasteri e vinerie) e mi hanno direttamente trovato la sistemazione per la sera.
Tornando a Novi Sad con la macchina, ho attraversato il ponte che collega la città principale a Petrovaradin (cirillico: Петроварадин), la municipalità che prende il nome dall’omonima fortezza sul fiume. Mentre lo percorrevo, ho avuto un brivido pensando che stavo guidando sul Danubio.
CONCLUSIONI
Nella poesia Dora Markus, Eugenio Montale delinea il ritratto suggestivo di una donna affascinante e volitiva. La scena è quella di un’antica dimora asburgica, in cui convivono, in modo bizzarro, antico e moderno. Dall’esterno arrivano i rumori delle barche a motore, ma dalle pareti delle stanze occhieggiano muti i ritratti degli antenati. Lei stessa osserva in uno specchio il suo viso non più giovane, che reca i segni del tempo e degli errori commessi. Lo specchio è il simbolo della memoria (Montale lo avrebbe chiamato “correlativo oggettivo”), in cui rimangono le tracce delle epoche passate, degli eccessi e dei dispiaceri, ma anche di una bellezza antica che si trasforma sempre. Dora non dimentica le stagioni della sua vita, sa di non essere più una ragazza, ma nello stesso tempo coglie la bellezza di una donna matura che è sopravvissuta con forza d’animo alle tempeste della storia.
È forse un caso che alcuni degli edifici moderni e avveniristici di Belgrado abbiano le finestre riflettenti e si ergano come grandi specchi dello scenario circostante? La Serbia è così. Come Dora Markus, Belgrado riflette se stessa e ricorda: ricorda la forte identità delle origini, ricorda come è stato necessario lottare e resistere per preservarla dalle numerose invasioni militari, politiche, linguistiche e culturali; ricorda come il nazionalismo esasperato possa diventare follia (che è la lezione definitiva della storia europea), ricorda le bombe e le stragi subite e quelle compiute proprio dai Serbi. Gli stessi edifici ne sono le cicatrici e le rughe. Ma lo specchio della memoria riflette anche la bellezza di una città piena di cultura ed energia, giovane e fiduciosa, che, come quel ragazzo in Trg Republike, sa aspettare il futuro con un mazzo di fiori in mano.
Non si apprezza in pieno il fascino di Belgrado e, credo, dell’intera Serbia, se non la si decifra e non la si traduce, come con l’alfabeto cirillico, per comprenderne i drammi e le dolcezze, la tensione di un popolo che ha imparato a difendersi ma anche a sorridere quando avverte il rispetto e l’amore degli altri.
Un grazie speciale a Dino del Vescovo e ai suoi collaboratori e collaboratrici che, con disponibilità squisita, hanno reso possibile il mio viaggio. Хвала!
Bellissimo reportage. Complimenti da parte di Paola Gallo, direttore artistico dell’associazione culturale Musica in Valigia che si occupa di viaggi d’autore
Grazie Paola, merito del viaggiatore Antonio Dione Crisostomo
Grazie Paola, merito del viaggiatore Antonio Dione Crisostomo
Bellissimo, bravo Antonio